Una strategia emotiva per negoziare con efficacia

Uno degli elementi fondamentali per un buon negoziato è la capacità di scindere le persone dal problema. Nella realtà delle nostre trattative tuttavia tendiamo ad affrontare persona e problema come una cosa sola.

La relazione con l’altra parte si sovrappone alla discussione nel merito delle questioni ed il mix è spesso disfunzionale.

Reazioni di contrarietà verso la posizione negoziale dell’altra parte ci portano a provare risentimento anche verso la persona, aggravando le distanze e portando spesso il negoziato su un terreno di difesa dell’identità e di scontro emotivo.

In un circolo vizioso che ci porta a minare la relazione con l’altro e a rendere sempre più faticoso, o impossibile, il raggiungimento di un accordo.

“In un negoziato, particolarmente in un’aspra discussione” ci dicono Fisher e Ury in Getting To Yes “le sensazioni possono essere più importanti delle parole”.

Anche nella negoziazione vale la regola delle 3 C della competenza. Oltre alla conoscenza nel merito della questione specifica, sull’oggetto della negoziazione (il sapere), oltre alla capacità di tradurre la teoria in applicazione pratica, in proposte concrete di accordo (il saper fare) è fondamentale, per il buon esito di un negoziato, essere abili nella gestione del comportamento, ovvero della relazione con l’altro (il saper essere). Relazione che significa comunicazione, percezioni, emozioni.

Ed è l’intelligenza emotiva, la capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni e quelle dell’altra parte, che può fare la differenza anche nei processi negoziali sia in termini di buon esito o meno della trattativa, sia di livello di qualità e soddisfazione che l’eventuale accordo produce.

Un negoziatore non è mai un asettico portavoce di posizioni e/o interessi. È innanzitutto una persona che vive emozioni e che come tale non è guidata solo da una fredda razionalità. Le emozioni influenzano, in modo determinante spesso, ciò che accade al tavolo delle trattative.

Alison Wood Brooks, docente alla Harvard Business School, in un articolo comparso nella rivista del Program On Negotiation della Law Harvard School, ha evidenziato che – mentre dedichiamo molto tempo, prima di un negoziato, a studiare e preparare mosse tattiche e strategiche, offerte e controfferte – non ci impegniamo con altrettanta energia ad allenarci nel nostro approccio emotivo, a preparare cioè una “strategia emotiva” per il negoziato che dobbiamo affrontare.

Numerose sono ormai le ricerche che hanno analizzato come, i quattro driver emotivi di base – paura, rabbia, dolore/delusione, piacere – possano influenzare il comportamento dei negoziatori e non mancano gli studi che hanno evidenziato anche le differenze di ciò che accade nei negoziati quando le persone semplicemente provano queste emozioni e quando invece le manifestano anche all’altra parte attraverso parole, azioni, linguaggio del corpo.

Facendo riferimento all’articolo sopracitato, integrato da altri apporti, passiamo sinteticamente in rassegna, per ciascuna delle emozioni citate, le criticità che possono rappresentare nello specifico della negoziazione e possibili rimedi per gestirle in modo da non renderle disfunzionali.

Paura

L’emozione della paura si presenta in particolare nella fase che precede l’avvio di un negoziato. E tipicamente, la reazione, la tentata soluzione disfunzionale, è la più classica, l’evitamento.

Dobbiamo affrontare il capo per chiedere un aumento e rinviamo la cosa continuamente per timore di una chiusura dell’altra parte.

Ma gli effetti negativi del provare timore/ansia durante una negoziazione possono andare oltre, ci racconta sempre Alison Wood Brooks.

In una delle sue ricerche ha chiesto a 136 persone di negoziare prezzo di acquisto, periodo di garanzia e durata di un contratto di telefonia mobile. A metà dei partecipanti all’esperimento si facevano ascoltare tre minuti del tema musicale del film Psycho e all’altra metà una soave musica di Handel.

Le persone sottoposte alla musica “ansiogena” hanno fatto prime offerte più deboli, hanno risposto in modo più rapido alle controfferte, e hanno dimostrato una marcata propensione ad abbandonare la trattativa prima del tempo pur avvertiti e consapevoli che questo comportamento avrebbe ridotto il valore prodotto dalla trattativa.

Altre ricerche condotte insieme a Francesca Gino e Maurice Schweitzer, per esplorare il comportamento di persone che manifestavano ansia in situazioni in cui potevano chiedere consiglio agli altri, suggeriscono che quest’ultime presentano maggiore “vulnerabilità” e probabilità di essere “sfruttate” in una negoziazione, soprattutto quando la controparte percepisce il loro disagio.

Che fare in questi casi? Dipende naturalmente da molte variabili, non esistono soluzioni preconfezionate e valide per tutti.

Certamente un’ipotesi da considerare pragmaticamente può essere quella di esternalizzare, facendosi supportare da negoziatori professionisti. Lo fanno attori, sportivi, lo facciamo quando ci rivolgiamo ad un agente immobiliare (anche se qui dovremmo distinguere tra figura di mediatore e quella di negoziatore).

Se però il tipo di negoziazione che dobbiamo affrontare non è “delegabile” (quando ad esempio dobbiamo chiedere un aumento al capo o discutere di organizzazione del lavoro con i nostri colleghi) l’obiettivo diventa allora quello di superare autonomamente il blocco della performance che può derivare da questa “paura del negoziato”. In questo caso può essere molto utile affidarsi ad un percorso di Coaching strategico e alle tecniche controintuitive che questo metodo fornisce nel superamento della paura, a partire da quella che viene definita la “peggiore fantasia”.

Rabbia

Coloro che interpretano il negoziato come un gioco a somma zero, puramente competitivo, ritengono che la rabbia possa risultare produttiva, funzionale ad ottenere una fetta più grande della torta delimitata da dividersi (vedi qui e qui un approccio che ribalta completamente questa “credenza” della negoziazione).

Qualcuno pensa che manifestare rabbia faccia sembrare più forti e capaci di strappare il risultato migliore.

Alcuni arrivano addirittura a teorizzare di fingere la rabbia durante una trattativa perché in questo modo la controparte, per disinnescarla, non avrà altra scelta che cedere alle condizioni imposte.

Ma nella trattativa di posizione, concepita in termini di scontro tra volontà, sono invece proprio rabbia e risentimento le probabili risultanti del comportamento di chi si sente costretto a cedere davanti alle pressioni della “controparte”, che si dimostra incurante degli interessi dell’interlocutore negoziale.

Tutto ciò è legato al fenomeno definito dai ricercatori come “Fixed-Pie Bias”, e cioè la credenza erronea, ma molto diffusa, in base alla quale si ritiene che l’interesse dell’altra parte in un negoziato debba essere necessariamente opposto al proprio.

In realtà l’effetto principale della rabbia, nella vita in generale e anche quando negoziamo, è minare la relazione con l’altro.

Duri con il problema ma morbidi con le persone è invece una delle regole fondamentali da seguire nel negoziato se vogliamo raggiungere accordi reciprocamente vantaggiosi e anche più lungimiranti sia rispetto a possibili rapporti futuri con l’altra parte sia in un’ottica di buona reputazione in generale.

Anche qui sono le ricerche a parlare. In particolare quelle condotte da Keith Allred, già membro della facoltà della Kennedy School of Government di Harvard, che hanno dimostrato che la rabbia nelle trattative, finta o vera che sia, danneggia il processo negoziale, riducendo i guadagni comuni e aumentando il tasso di rifiuto delle offerte. Il negoziato interpretato come prova di forza porta quantomeno allo stallo logorante e dispendioso se non all’allontanamento dell’altra parte e al No Deal.

Gestire la rabbia è un’abilità da acquisire per diventare migliori negoziatori e raggiungere i nostri obiettivi evitando conflitti spesso inutili, a volte dannosi.

Anche qui ci possono venire in aiuto alcune tecniche provenienti dalla letteratura in materia, come quella dell’ “andare in balcone”, immagine analogica per significare un luogo mentale ed emotivo che ci permette di “staccarci”, di stare nell’osservazione, di noi stessi, degli altri e della situazione complessiva, da una prospettiva altra.

Utile inoltre è realizzare che un negoziato non è quasi mai un “One-Shot Game”. Una trattativa richiede più incontri. Quando emergono tensioni, prima di lasciarle sfogare nella rabbia, fermiamoci un attimo e inseriamo il tasto “pausa”, per calmarci e riorganizzare strategia e idee. Cerchiamo di non sentirci solo attori ma anche registi della negoziazione.

Numerose poi sono, le tecniche di Coaching, in particolare del modello strategico, alle quali poter ricorrere, qualora si decidesse di intraprendere un percorso di sblocco o sviluppo della propria performance – negoziale e non solo – con l’obiettivo di trasformare la rabbia in qualcosa di funzionale e/o di allenarsi a diventare inoffendibili, sapendo “prestare l’orecchio, ma non il cuore e la lingua” come suggerisce il Coach Strategico Piercarlo Romeo nel suo libro “Equilibrio emotivo”.

Dolore/Delusione

Se la paura/ansia è l’emozione che più probabilmente viene provata prima di intraprendere un negoziato, se la rabbia tipicamente può fare capolino durante le trattative, il dolore/delusione è la sensazione che può affacciarsi più probabilmente durante la fase finale di un negoziato.

Quando negoziamo, una delle parti potrebbe provare delusione per come si sta profilando la trattativa o per l’esito, reputato insoddisfacente, di un accordo.

Come per la rabbia anche il dolore si manifesta quando la persona si sente offesa.

Reagire con rabbia abbiamo visto che solo apparentemente crea difese e molto concretamente mina la relazione e aumenta la probabilità di stallo o uscita dall’accordo.

Manifestare delusione può invece rappresentare una forma di auto-rivelazione che può avere una funzione costruttiva quando il disappunto viene gestito in modo da incoraggiare l’altra parte ad un esame critico rispetto alle proprie azioni e posizioni.

Le ricerche dimostrano, afferma sempre Alison Wood Brooks, “che una causa di delusione in una negoziazione è la velocità del processo”.

“Quando una trattativa si svolge o si conclude troppo rapidamente, i partecipanti tendono a sentirsi insoddisfatti”. E cominciano a domandarsi “se avrebbero potuto o dovuto fare di più o insistere di più”.

Un aspetto potente da tenere presente per i negoziatori è che le ricerche hanno dimostrato “che è più probabile che le persone rimpiangano le azioni che non hanno intrapreso, le opportunità mancate e gli errori di omissione, piuttosto che gli errori di commissione”.

Qui il rimedio è di non abbandonare l’insoddisfazione a se stessa e di far entrare in gioco l’abilità dell’ascolto attivo attraverso domande all’altra parte utilizzando possibilmente il dialogo strategico e il processo persuasivo che ci provengono dal Prof. Giorgio Nardone e dalla pragmatica della comunicazione di Paul Watzlavick.

Nelle trattative, ottenere informazioni è fondamentale. Non esitate a fare domande se vi sentite delusi. Se proprio dovete uscire dalla trattava fatelo con la sensazione di aver esplorato ogni strada, ogni opzione possibile.

Piacere

Anche il piacere può diventare un fattore disfunzionale se portato agli eccessi. Questo vale anche quando negoziamo.

Una delle tentate soluzioni disfunzionali del piacere, secondo il modello strategico, è lasciarsene travolgere.

Un eccesso di soddisfazione, un entusiasmo “sopra le righe”, per il raggiungimento di un accordo può ad esempio dare all’altra parte la sensazione di non aver valutato con tutta la dovuta attenzione i termini dell’accordo. Da qui può nascere un atteggiamento di sospetto, di delusione e la percezione di essere la parte “perdente”.

Non di rado accade che una eccitazione non temperata e non inclusiva faccia prendere all’altra parte misure difensive, quali l’invocazione di un diritto di recesso, la richiesta di rinegoziare l’accordo, o azioni “punitive” future in relazione a nuove trattative che si dovessero tenere (tra queste il rifiuto di negoziare ancora con quel partner e trovarne uno alternativo).

Un buon negoziatore sa che i migliori accordi si raggiungono in una logica collaborativa, con un approccio di gioco a somma positiva. E non lascia mai l’altra parte nella percezione di essere l’unica parte a poter festeggiare i risultati.

Soprattutto negli accordi che si fondano su una prospettiva di collaborazione futura – pensiamo ad esempio alle fusioni aziendali – mostrare entusiasmo ci può stare ma è bene che questo sia basato sulla condivisione delle opportunità comuni piuttosto che sulla sensazione di una sola parte di aver ottenuto le condizioni più favorevoli .

Quindi in primo luogo essere premurosi verso il partner negoziale. E in secondo luogo prudenza nel lasciare che l’eccitazione possa orientarvi verso strategie e azioni velleitarie.

A questo proposito Alison Wood Brooks ci ricorda, come monito, il caso estremo del tragico lancio dello Space Shuttle Challenger nel 1986, quando gli ingegneri che lo avevano progettato, con forti remore dettate da quell’O-ring che sapevano difettoso (una guarnizione nel segmento inferiore del razzo), non riuscirono a frenare l’entusiasmo dei dirigenti Nasa orientati comunque a procedere con il lancio. Le conseguenze, come sappiamo, portarono all’esplosione del velivolo dopo soli 73 secondi di volo e alla perdita di tutti i 7 membri dell’equipaggio.

Conclusioni

Secondo Goleman l’intelligenza emotiva (QE) è due volte più rilevante delle capacità cognitive (QI) come fattore predittivo di performance eccezionali.

In una negoziazione, che vive di relazione, non è pensabile si possa trascurare il ruolo che le emozioni giocano nell’influenzare i propri e altrui comportamenti. Ne va della possibilità di raggiungere o meno un buon accordo e della qualità dello stesso.

Riconoscere e comprendere le proprie emozioni e, possibilmente, quelle degli altri (su questo aspetto torneremo sicuramente con altri contributi) è un’abilità determinante quando affrontiamo e gestiamo i nostri processi negoziali.

Una strategia emotiva accorta ed efficace parte innanzitutto da un lavoro su sé stessi, prima e dopo che proviamo le emozioni, per essere in grado poi di gestirle mentre le proviamo.

Alison Wood Brooks ci rammenta che la negoziazione richiede alcune abilità che ritroviamo nei giocatori di poker. Attenzione alla strategia, capacità di immaginare nuove opzioni, calcolo del rischio, lettura e interpretazione delle altre parti.

Ma esistono differenze sostanziali. Mentre nel poker le decisioni sono unilaterali e il gioco è a somma zero nella negoziazione l’obiettivo è cercare un accordo che riesca ad incrementare la torta.

Differenze che tuttavia non devono far dimenticare una lezione che proviene dal tavolo di gioco: “il valore del controllo delle emozioni che proviamo e di quelle che riveliamo”.

I più abili negoziatori, continua Wood Brooks, saranno quelli in grado di sviluppare una sorta di “faccia da poker”, non la maschera inespressiva di chi nasconde i veri sentimenti, ma il volto di chi rivela le emozioni giuste al momento giusto.

Federico Oggian

Business Coach, Formatore, Consulente strategico per aziende e organizzazioni